NOI E LE PAROLE
diagnosi precoce dei tumori, assistenza sanitaria, assistenza psicologica ai malati oncologici e ai loro famil

CoL Centro oncologico Ligure diagnosi precoce dei tumori, assistenza sanitaria, assistenza psicologica ai malati oncologici e ai loro famil NOI E LE PAROLE

NOI E LE PAROLE

Bella la discussione che si è generata in questi giorni e speriamo che non si spenga presto, come tante cose (gli entusiasmi, ad esempio) in questo Paese. Mi riferisco alla pubblicazione su una delle maggiori riviste americane di medicina (JAMA) di un rapporto commissionato dal National Cancer Institute (massima agenzia governativa in campo oncologico).
Il rapporto mette clamorosamente in discussione in molti casi l’utilità della parola “cancro”: si tratta di una parola odiosa che trasmette angoscia ai pazienti e che dovrebbe, secondo i ricercatori guidati da Laura Esserman, essere utilizzata solo per definire le forme ad esito infausto se non trattate. In tanti casi, quindi, qu
ella parola può essere evitata, risparmiando ansie inutili e inutili spese legate a diagnosi e terapie eccessive: classifichiamo meglio i tumori e staremo meglio tutti, insomma, comprese le casse dei sistemi sanitari sempre più disperate. Il dovuto risalto a questo rapporto molto tecnico e alle sue raccomandazioni (rivedere, anche, l’eccessivo ottimismo circa gli screening organizzati che richiedono uso e informazione più corretti) lo ha dato prima degli altri il maggior quotidiano americano, il New York Times.
Hanno fatto seguito sulla stampa anche italiana commenti diversi, alcuni contro e altri a favore, focalizzati forse un po’ troppo sugli aspetti linguistici del rapporto americano che semmai mirava piuttosto agli aspetti classificativi e gestionali.

Merita comunque di essere citato quello del prof. Umberto Veronesi che, su Repubblica del 30 luglio, ha scritto un articolo utile: il più noto oncologo italiano si dice favorevole a questo cambiamento linguistico che aveva in qualche modo già anticipato nel 2006 proponendo, per i tumori mammari, di sostituire la definizione “carcinoma duttale in situ” (un’entità a bassissimo rischio evolutivo) con quella più tranquilla di “neoplasia intraduttale”. Non solo, Veronesi propone di smettere di definire “sopravvissuti” gli ex malati: “Si sopravvive - precisa- ad una calamità, a una guerra, ad un incidente, a un evento catastrofico, insomma, in cui solo per miracolo ci si sottrae alla morte. Ma oggi il cancro è una malattia curabile nella maggioranza dei casi”. E’ un commento equilibrato e rispettoso. Ma si può essere ancora più incisivi e innovativi nel linguaggio? Possiamo dire le cose ancora meglio? Se non ci sono sopravvissuti, sembra di capire, non c’è nemmeno una guerra. Verissimo. Ma allora perché si continua a parlare da cent’anni di lotta “contro” il cancro? Perché si chiede agli italiani di finanziare la ricerca di nuove (miracolose?) “armi” per combatterlo più efficacemente e “distruggere” tutte le cellule maligne? Insomma perché la metafora fondamentale, quando si parla di cancro, rimane quella della guerra? E’ un fatto di pigrizia intellettuale? Oppure un’accorta (ma contraddittoria) strategia di marketing?